Nel piccolo caffè alla periferia della città aleggiava l’odore di caffè appena macinato e di pioggia. Un uomo anziano, con il cappotto militare, sedeva vicino alla finestra. Le sue mani tremavano mentre stringeva la tazza, gli occhi persi nei ricordi.
Una giovane cameriera si avvicinò con il conto. Quando tese il braccio, lui la vide: un corvo nero tatuato sul suo avambraccio. Si immobilizzò. Quel simbolo… l’aveva già visto, molti anni prima, su un altro campo di battaglia.
Quel corvo apparteneva ad Adrian Keller, suo compagno d’armi, un uomo coraggioso che non era mai tornato. Nella notte in cui furono circondati, Adrian gli aveva consegnato una lettera macchiata di sangue.
— Se non torno, dagli questa a mia figlia, aveva sussurrato.

Ma la guerra aveva cancellato tutto. Lettere, nomi, promesse.
E ora, decenni dopo, lo stesso segno appariva davanti ai suoi occhi, su una giovane sconosciuta.
— Quel tatuaggio… dove l’hai fatto?
— È in memoria di mio nonno, — rispose lei con un sorriso timido. — Era il suo simbolo. Mamma diceva che rappresentava la libertà.
Il veterano trattenne il respiro.
— Come si chiamava tuo nonno?
— Adrian Keller.
Le lacrime gli velarono la vista. Il tempo si era piegato su sé stesso, riportandogli un volto che credeva perduto.
Lei lo guardò con dolcezza.
— L’hai conosciuto?

Lui annuì e tirò fuori una vecchia fotografia: due giovani soldati in uniforme, il sorriso malinconico di chi crede ancora nella speranza.
Lei sfiorò la foto con le dita.
— È lui…
Nel silenzio del caffè, il passato e il presente si toccarono per un istante. Un semplice tatuaggio aveva ridato vita a una promessa di cinquant’anni prima.