Il tifone aveva spazzato via tutto — case, ricordi, vite. Tra i detriti galleggianti la vidi: una bambina tremante, i capelli incollati dal sale, il respiro corto. Portava il segno del caos, ma nessun nome, nessun passato. La raccolsi, come un frammento di specchio da ricomporre. La chiamai Sylène, in ricordo della luce che ancora brillava nei suoi occhi.

I primi giorni furono di silenzio. Guardava l’orizzonte, come se il mare nascondesse una chiave perduta. Ogni sera sedevo accanto a lei, al riparo dal vento, e le parlavo delle stelle, del pane caldo, del profumo dell’aria. Victor, il mio compagno, la circondava con gesti semplici — pasti, sorrisi, storie accese nel camino. Sylène ascoltava, cresceva, si apriva alla vita.
Col tempo, scoprì la pittura. Non dipingeva le onde, ma la voce del mare. “Non è l’acqua che dipingo,” diceva, “ma ciò che resta nei miei ricordi.” Il villaggio la amava. Victor scherzava: “Il mare le sussurra segreti.”
Una sera d’autunno arrivò una lettera, profumata di gigli. Portava un nome: Léonor — e la firma di una madre perduta, che l’aveva cercata per quindici anni. Sylène rimase turbata, divisa tra il presente e l’ignoto.

L’arrivo di Elena fu pieno di emozione trattenuta. Parlò di errori, tempeste e rimpianti. Sylène esitò, ma accettò di ascoltare.
Per il concorso di pittura dipinse “Confluenze silenziose” — due figure femminili unite da un’onda luminosa. Vinse il primo premio. I giornali raccontarono “la figlia del mare.”
Quando Elena e Victor si incontrarono sul vecchio molo, l’aria tremò. Sylène, tra loro, disse:
— Io sono Sylène, e anche Léonor.
— Io sono tua madre, sussurrò Elena.
— Io sono tua figlia — qui, lì, ovunque.

Con il tempo, Elena divenne parte della famiglia. Non sostituì mai Victor, ma lo completò. All’ultima mostra di Sylène, un trittico: il molo, il mare, tre volti — passato, presente, orizzonte. Aveva ritrovato se stessa.